Mi è capitato più volte di essere trattato con superiorità, quasi schernito, perchè ho cercato di sottolineare quanto possa essere pericolosa la disinformazione. Nonostante questo continuo e continuerò a ripeterlo: la disinformazione è pericolosa.
E può esserlo veramente tanto.
Su Il Mattino di Padova del 27 Febbraio scorso è apparso un articolo che contiene la lettera “sfogo” di una persona che, teoricamente, potrebbe essere uno qualunque di noi o anche uno dei nostri amici o delle persone che conosciamo.
Una lettera piuttosto forte, scritta da un cittadino di un piccolo borgo di provincia, meno di 10.000 abitanti, un cittadino che sta vivendo sulla propria pelle un dei tanti effetti della disinformazione e di chi ne aiuta la diffusione al grido di “meglio farlo, no? tanto non fa male“.
La storia è fin troppo semplice. Due ragazzini raccontano ai genitori di una persona che ha cercato di adescarli vicino alla scuola e ne descrivono il furgone. Da qui parte subito un veloce tam-tam che trova in Whatsapp e nei social una grandissima cassa di risonanza, grazie alle precise descrizioni del furgone spesso complete di foto, che raggiunge in in pochissimo tempo numerose famiglie della zona.
Peccato che, una volta ascoltati dai carabinieri, i due ragazzini ritrattino tutto ammettendo di aver raccontato una bugia e quando il proprietario del furgone si presenta in caserma non è difficile per i carabinieri verificarne la totale estraneità ad ogni fatto.
Ma la notizia continua a girare sui social.
La malattia del “condividi senza approfondire” è persino più forte della verità, degli articoli su alcuni giornali locali (Padova Oggi, Il Mattino di Padova) e persino di una comunicazione del sindaco sul sito del comune. La “psicosi da mostro” ha proseguito ad esistere.
E così, quel proprietario del furgone ha preso carta e penna e ha scritto alla redazione del giornale, sfogando in una lettera il proprio sconforto per essersi trovato, parole sue:
“in una situazione in cui nessuno vorrebbe essere.”.
Le frasi che seguono, poi, descrivono questa situazione in modo deciso:
“A causa dell’utilizzo smodato, superficiale e senza scrupoli di un social network, la mia persona è stata infangata da un’ accusa infamante […]. È imperdonabile e inaccettabile che la vita di qualcuno venga diffamata e saccheggiata e poi pensare che qualche parola di scuse sia sufficiente per far tornare tutto come prima.”
E la lettera si conclude ripetendo, con parole diverse, quello stesso concetto che dico da sempre:
“Concludo sperando che quello che mi è successo serva a far capire che l’utilizzo dei social network deve essere fatto con coscienza, responsabilità e discrezione, specie quando si tratta di altre persone… Basta poco per rovinare la vita di qualcuno, e poi non è più sufficiente la scusa dello scherzo di cattivo gusto o del ‘non pensavo succedesse tutto questo’”.
Già.
E’ vero, ci possono essere “bufale” che non fanno così male. Ma ce ne sono altre, e non sono poche, che posso fare molto male, possono anche arrivare ad uccidere. E non sto esagerando.
Nessuno di noi è in grado di capire la vera pericolosità di un messaggio che diventa facilmente virale se proposto e condiviso in un ambiente dove si tende a non voler usare la testa, dove si vuole arrivare per primi a condividere una notizia per far felice il proprio ego.
E, come ha tristemente detto il proprietario di quel furgone, non esistono scusanti che possano giustificare un atto fatto senza le dovute precauzioni.
Sono padre anche io e sono conscio della pericolosità degli “adescamenti” e sono più che certo che far girare una notizia solo “per sentito dire“ non sia il modo migliore per proteggere mia figlia, per una serie di motivi che includono, tra l’altro, il mettere a rischio anche lo stesso lavoro delle forze dell’ordine.
Prima di condividere una notizia, prima di sciacciare quel maledetto “Condividi“, pensate.
Usate la testa.
La vostra.
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