Le specifiche hardware di Curiosity potrebbero sorprendere chi si fa bello snocciolando le caratteristice hardware dei propri giocattoli tecnologici, spesso senza nemmeno avere un’idea di cosa sta dicendo.
La CPU ha un clock di 200 Mhz, la memoria annovera 256 Mb di DRAM ECC, 2 Gb di memoria flash ECC e 256 kb di EEPROM.
Sembrano specifiche ridicole, ma Curiosity non deve collegarsi alla rete GSM/UMTS, non deve titllare i vostri occhi con un’interfaccia grafica di design, non deve farvi ascoltare la musica né mostrarvi filmati.
Bisogna inoltre considerare che l’hardware inviato nello spazio ha bisogno di metodi costruttivi particolari per poter superare la qualifica al volo, quindi non si può prendere gli stessi chip che usa Foxconn per assemblare i device.
La prima volta che ho visto la simulazione della sequenza di atterraggio su Marte ho pensato alla complessità del software: un sistema del genere deve avere una sequenza di eventi da rispettare (“alla tal altezza esegue questa operazione”) che però deve tener conto di fattori esterni ed adattarsi agli stessi. Questo software si chiama EDL (Entry, Descent and Landing) e gira sul sistema operativo realtime VxWorks, un derivato dal VRTX.
In molte missioni spaziali l’intelligenza sta a terra: il veicolo ha a bordo dei sistemi limitati e dei sensori che inviano i dati al controllo missioni per l’elaborazione e le decisioni del caso. Con l’atterraggio di Curiosity tutto ciò non è stato possibile, in quanto l’attuale distanza tra Terra e Marte è di 14 minuti-luce, quindi un segnale radio impiega 28 minuti a fare il percorso completo Curiosity-Terra-Curiosity (e noi ci lamentiamo di ping a 120 ms…). La sonda era quindi da sola e doveva prendere lei (ovvero il suo software di controllo) le decisioni giuste per atterrare con successo senza danni.
Dei personali complimenti, quindi, a chi ha realizzato l’EDL. (via Mikko Hypponen)
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