Giorno più, giorno meno, 50 anni fa veniva trasmesso per la prima volta in televisione in episodio di Star Trek di quella che, in seguito sarebbe diventata la Serie Classica.
Star Trek ha dato tanto alla fantascienza televisiva, al punto di diventare un’icona e un classico della cultura pop del secolo scorso, almeno nei Paesi anglosassoni.
La Serie Classica, pregna di Positivismo, mostrava che, se lo voleva, l’Uomo poteva costantemente migliorare se stesso e l’Universo che lo circondava, liberandosi dalle negatività che ancora lo caratterizzavano.
È un fatto incontrovertibile ed assodato che Star Trek abbia ispirato o spronato uomini e, soprattutto, donne ad intraprendere carriere scientifiche o astronautiche; solamente per questo la serie merita il posto che ha nella storia culturale.
Ma bisogna ricordare che sono stati gli scrittori di quei classici 79 episodi a materializzare l’utopia di Gene Roddenberry: persone come Harlan Ellison, D.C. Fontana, Theodore Sturgeon, Robert Bloch, Gene Coon, Norman Spinrad e molti altri sono coloro i quali hanno animato l’idea di Roddenberry.
Le ristrettezze di budget hanno obbligato la produzione a concentrarsi sulle storie e sui dialoghi, con un’impostazione che era spesso teatrale più che televisiva (ed è un commento positivo).
Star Trek torna in TV molti anni dopo la Serie Classica, dopo una falsa partenza e dopo l’arrivo epocale di Star Wars.
The Next Generation è, come ogni minuto girato di Star Trek, una serie figlia del suo tempo: il muso duro di Kirk viene sostituito dal pugno di ferro in un guanto di velluto di Picard, che ogni tanto cede un po’ troppo alla political correctness, come era consuetudine del periodo.
Nonostante una partenza un po’ in salita, The Next Generation riesce ad esprimere storie indimenticabili, grazie ad un Patrick Stewart che è un grande attore anche quando declina l’offerta di una scatola di cioccolatini di una signora nel backstage di The Master Builder a Londra.
Alla fine delle quasi canoniche (per il periodo) sette stagioni il timone passa a Deep Space Nine, la serie che, più di tutte, non lascia apatici i fan: o la si ama o la si detesta.
Trasmessa assieme a Babylon 5, Deep Space Nine rompe due canoni di molta televisione seriale del periodo: il pulsante di reset e la preminenza di due o tre protagonisti. Con Deep Space Nine iniziano dei fantastici archi narrativi che coprono più episodi (il finale è un arco strepitoso di dieci episodi, quasi metà stagione). Nonostante la presenza costante di Sisko, i comprimari si alternano e si valorizzano gli uni con gli altri, da Kira fino a Morn.
Deep Space Nine è la pillola rossa di Star Trek: il mondo non è più un’utopia, ci sono delle forze ostili tutto attorno e ad un certo punto ne arrivano di veramente cattive, la cui sconfitta richiede diversi sacrifici. A chi piace, piace perché racconta una possibile realtà; a chi non piace, non piace per il medesimo motivo. E la serie si chiude nel 1999: il peggio nel mondo reale deve ancora venire.
Voyager parte quando Deep Space Nine sta iniziando a dare il meglio di sé e alcuni sostengono che la libertà narrativa che ha avuto Deep Space Nine sia stata proprio perché il franchise era impegnato con Voyager e i film.
Dopo una falsa partenza con l’attrice sbagliata per il Capitano, Voyager mostra un po’ i difetti della scelta dell’impianto della serie. Era quasi certo fin dall’inizio che la nave sarebbe arrivata a casa, si trattava solo di trovare un centinaio di alieni della settimana che ne facessero percepire il viaggio. Trovare degli alieni non tanto inutili da non valere la pena di farci una storia e non tanto potenti da far fuori la nave prima della fine del teaser non è stato spesso facile.
Durante la serie si sono avvicendate due donne comprimarie, la prima rivelatasi poco significante, la seconda potente al punto da far perdere la corsa al senato a Jack Ryan e spianare la strada ad un giovane Barack Obama, ma questo è un altro continuum temporale. In ogni caso, i vestiti attillati fanno sempre colpo su una parte del pubblico e permettono di riportare a casa la Voyager alla fine della settima stagione.
Ancora una volta Star Wars influenza Star Trek e l’ultima serie televisiva guarda al passato e non più al futuro. Nonostante alcuni bravi attori, le storie di Enterprise vanno alcune volte dal ridicolo all’offensivo verso l’intelligenza dello spettatore. Vengono anche buttate via molte occasioni, come il tema della guerra fredda temporale, forse troppo complesso per chi era al timone della produzione.
L’ultima stagione di Enterprise dimostra sia l’inadeguatezza di chi aveva indirizzato le storie fino a quel momento sia il fatto che era possibile scrivere belle storie per Enterprise. Ma oramai il destino della serie è segnato, nemmeno Judith e Garfield Reeves-Stevens riescono a riportare la serie indietro dal mondo dei morti. Ci penserà il produttore della serie a scrivere un pessimo e imbarazzante ultimo episodio per porre una collezione di chiodi sulla bara di Enterprise che nemmeno una ferramenta se li sognerebbe.
Star Trek non presenta più qualcosa di nuovo sugli schermi televisivi dal 13 maggio 2005 (non esisteva ancora l’iPhone e Windows XP era nel pieno del suo vigore!); gli attori che vengono intervistati adesso di fatto recitano la parte degli attori di Star Trek e mi fanno un po’ tristezza, se devo dirla tutta.
La situazione caotica dei diritti di Star Trek e una poca voglia di rilanciare davvero il franchise hanno fatto sì che ogni tanto uscisse qualcosa, giusto per evitare che il pubblico si dimenticasse di Star Trek, ma sono prodotti senza l’intelligenza delle storie a cui eravamo abituati.
Probabilmente ci sarà una nuova serie, probabilmente non andrà nemmeno sulla televisione, ma il futuro è in grembo a Giove.
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