In questo post vi racconto le mie ultime avventure ed esperimenti in ambito di storage per condividere qualche risultato che trovo interessante.
Parto dall’inizio raccontandovi che il mio desktop è dotato di una scheda madre con chipset del southbridge ICH8R: avevo quindi originariamente optato per montare due dischi da 250GB configurati in RAID1 (comunemente chiamato anche mirroring).
Inizialmente avevo creato due partizioni: la prima da 80GB per contenere sistema operativo e applicazioni mentre l’altra serviva come archivio di tutti i dati. La doppia partizione è una idea che non mi ha mai entusiasmato, ma è una scelta molto utile quando il sistema operativo ogni tanto gradisce una “formattata e reinstallata” per tornare a funzionare bene, come purtroppo è spesso il caso di Windows.
Con l’aumento continuo della richiesta di spazio da parte degli applicativi e dei file di contenuti come le fotografie digitali – con tutti il loro contorno di panoramiche, HDR, meta-dati e via dicendo – già all’inizio del 2012 la situazione dello spazio libero stava diventando critica.
Come soluzione (purtroppo solo temporanea), qualche mese fa avevo quindi scelto di recuperare due piccoli dischi da 160GB inutilizzati per creare un altro array in RAID1 e così suddividere ulteriormente i dati utente su un altro disco. Lascio immaginare la lettore la totale impraticità del setup, ma per qualche mese mi sono accontentato e arrangiato.
Poche settimane fa, lo spazio libero sulla partizione del OS è sceso sotto il 10% dello spazio totale: a quel punto mi è suonato in testa il campanello di allarme generale.
Dovevo trovare una soluzione più elegante, più funzionale e più a lungo termine: qui inizia la parte interessante del racconto.
Dopo aver valutato diverse opzioni, ho pensato di risolvere definitamente il problema dello spazio, comprando due dischi di grande capacità e dedicando così lo spazio originale di 250GB al solo OS in modo da ridurre i dischi logici e da mettermi al riparo da carenza di spazio sia per SO e per applicazioni che per i dati.
Dopo una piccola ricerca ho optato per dischi da 1TB della serie red di Western Digital: si tratta di dischi appositamente ottimizzati per essere montati in schiere RAID e per funzionare in modo continuativo. La dimensione di 1TB – per me comunque abbastanza grande anche se ormai lontano dal top di mercato che offre facilmente drive da 3 e 4TB – unita alla obsoleta, ma economica tecnologia a piatti magnetici, mi ha permesso una spesa tutto sommato modesta risolvendomi il problema nel medio termine e dotandomi di due periferiche che potrò comunque usare anche in futuro su qualche server adibito SOHO.
Approfittando di questo cambio, ho deciso anche di testare la resilienza del sistema e la eventuale capacità di recuperare i dati in seguito a un danno.
Dopo aver fatto il backup dei dati, quindi, ho agito nella maniera più brutale, spegnendo il PC senza comunicare nessuna modifica a Windows e rimuovendo i due dischi da 160GB sostituendoli con quello nuovi da 1TB.
Al boot sono entrato nella utility di configurazione di Intel matrix storage che mi ha correttamente informato della presenza di due nuovi drive.
Con pochi comandi, ho creato un nuovo array in RAID1 e gli ho aggiunto questi due dischi da 1TB: all’avvio di Windows non ho rilevato grossi problemi anche avendo rimosso il precedente disco da 160GB, salvo ovviamente qualche lamentela dagli applicativi residenti che non trovavano più le path corrette.
Tramite la console di amministrazione dei dischi (per inciso diskmgmt.msc) ho creato un nuovo disco dinamico con una singola partizione, gli ho assegnato una lettera alta nell’alfabeto e ho poi ripristinato i dati dal backup.
A questo punto ero a metà dell’opera: il passo successivo era spostare tutti i dati dalla seconda partizione del disco originale da 250GB, cambiare lettera anche a quest’ultimo e riavviare.
Al riavvio, ho impostato la lettera originariamente assegnata alla seconda partizione del disco originale alla singola partizione sul nuovo disco da 1TB. A questo punto i dati utente erano quasi tutti accessibili tramite i percorsi logici originali, pur essendo in una locazione fisica del tutto diversa.
Ultima cosa da fare: cancellare la partizione dati esistente sui dischi originali da 250GB e riassegnare lo spazio al OS.
Sapevo ovviamente che Windows non poteva ingrandirsi la partizione mentre si trovava in uso, ma pensavo esistesse una utility da cui si potesse impostare il lavoro durante una sessione di lavoro e poi modificare effettivamente la geometria del disco durante il boot – un po’ come si fa con ScanDisk – ma mi sbagliavo.
Da manuale non esistono modi per ingrandire la partizione di sistema di Windows, ma ci sono alcune soluzioni collaterali che ho trovato in questo utile post su Microsoft Community.
Su un computer di test ho provato il software EASEUS Partition Master che effettivamnete fa quello che immaginavo all’inizio: permette tramite interfaccia grafica di impostare le modifiche che poi vengono effettivamente applicate al successivo riavvio del PC prima del caricamento di Windows.
La procedure ha funzionato correttamente, tuttavia non sono rimasto del tutto contento del fatto che, durante la modifica vera e propria, il software lavorasse un po’ “al buio” non dicendomi in che stato si trovava e lasciandomi a un certo punto con il proverbiale «99% – 14 seconds remaining» per circa 20 minuti.
Per effettuare il ridimensionamento vero e proprio, allora, mi sono affidato a Gparted Boot Disk una distribuzione Linux basata su Debian Live che si focalizza appunto sulla modifica della geometria dei dischi rigidi in piena libertà facendo il boot da un live-CD. La scelta è caduta su questo strumento prima di tutto per il fatto di avere già una conoscenza diretta del tool Gparted oltre ad avere trovato molta documentazione online. Non ultimo ha influito il fatto che una utilità di questo tipo può tornare utile in molti altri casi con molti altri sistemi operativi: quindi una esperienza in più non poteva fare che bene.
Ho quindi provveduto scaricare la ISO del boot disk e l’ho masterizzata su un CD (l’immagine è abbastanza piccola per stare su un CD da 8cm che, oltre a essere più comodo da portarsi in giro stando nel taschino della camicia, è un oggetto molto geek agli occhi dell’utente medio) mi sono quindi lanciato nella modifica usando come traccia questo articolo su Hot-to Geek per aiutarmi in caso di imprevisti o paresi cerebrale improvvisa.
Per inciso, devo dire che Gparted è incluso anche in molti dei cosiddetti rescue CD tra cui l’arcinoto SystemRescueCD che quindi avrebbe potuto essere usato in maniera equivalente al posto del live CD di cui sto parlando. Questo argomento meriterebbe forse di essere oggetto di un post futuro, ma non è fondamentale per la discussione presente.
All’avvio il live-CD ha chiesto poche informazioni di base per avviarsi in maniera corretta e in pochi secondi mi ha mostrato una amichevole interfaccia grafica.
E’ stato facile identificare sia il disco che la partizione da estendere: a prima vista questa può sembrare una banalità, ma per un tool di questo genere è fondamentale comunicare all’utente in maniera chiara quale oggetto sta modificando per evitare veri e propri disastri.
La funzione di estensione è elementare come un click del mouse e, dopo la conferma, l’applicazione delle modifiche è stata veloce. In meno di 5 minuti Gparted ho effettuato le modifiche e mi aveva informato su ogni passo oltre che comunicarmi l’esito positivo della modifica.
Ora veniva la parte difficile: infatti una modifica del genere alla partizione di sistema, secondo la documentazione che avevo letto, avrebbe dovuto portare a un mancato avvio di Windows con un errore grave a causa della mancata identificazione della “nuova” partizione. Mi ero quindi preparato il disco di installazione di Windows 7 che comprende una utility che permette di risolvere problemi simili.
Tuttavia la riavvio sono rimasto sorpreso dal fatto che Windows 7 sia partito regolarmente senza messaggi d’errore, ma richiedendo solo una scansione del disco che è proseguita per pochi minuti, lasciandomi poi con una installazione ancora perfettamente funzionante e con tutti i 250GB disponibili come originariamente desiderato.
Tutta l’operazione si era svolta quindi con un successo totale e con poche ore di lavoro anche comprendendo lo spostamento di molti GB da e verso i backup.
Rimaneva ancora qualche test per soddisfare la curiosità e, come avevo ipotizzato all’inizio, per testare la bontà della sicurezza dei miei dati.
Ho quindi preso uno dei dischi da 160GB che in precedenza avevo brutalmente smontati e rimossi dal loro RAID e l’ho collegato su un altro PC per vedere che cosa se ne poteva cavare.
Con piacere ho notato che potevo recuperare i dati in due modi, sia con l’aiuto di utilità per il recupero come PhotoRec (anche questa incidentalmente parte del già citato SystemRescueCD) sia semplicemente importando il foreign disk tramite la normale console di amministrazione dei dischi di Windows.
Nel primo caso i file erano naturalmente recuperati fuori ordine e senza preservare nomi o cartelle originali, mentre nel secondo ho potuto accedere facilmente alle cartelle e a i files in maniera del tutto trasparente.
In chiusura devo dire che questa esperienza diretta mi ha mostrato come sia possibile agire in maniera granulare e anche drastica su dischi e partizioni, senza necessariamente mettere in crisi sistemi operativi o applicazioni. Inoltre ho avuto la piacevole conferma che anche una sicurezza dei dati “casalinga” fatta con criterio, ma senza spese folli su tecnologie avanzate, permette un buon livello di persistenza dei dati e una ottima capacità di far fronte a un disastro.
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